L'Emigrante


 

L'Emigrante

(Racconto di Giulio Bonafede del 1982)

Triste lo spettacolo dell'emigrante che si allontana dal paese nativo, qualunque ne sia il motivo. Ha il cuore in gola. Volge attorno lo sguardo, vuole imprimersi profondamente nell'anima sua la vista dei luoghi, delle persone, di quanto a lui è stato caro, legato alle sue gioie, ai suoi dolori, a quella vita che ha vissuto in mezzo a stenti, a mortificazioni, a qualche gioia che gli ha lasciato nell'anima ricordi incancellabili. Si allontana a piedi, portando le sue poche cose in mano, un fagotto qualsiasi, o appeso alla spalla. Povera “roba”, certamente più povera di tutto quello che è costretto a lasciare nella sua povera casa, casa vuota, pur nella presenza di esseri viventi; si tratti di genitori, fratelli, sorelle, si tratti della sposa, dei figli. Ma è così, la dura necessità lo spinge ad emigrare, a cercare lavoro perché possa assicurare il pane ai suoi cari, un pane sicuro, ossia un pane che possa sfamare, alla lettera, perché nessuna sicurezza ha che questo pane lo si abbia a portata di mano restando nel proprio paese.

Parte l'emigrante, parte solo, inserito in un gruppo, specialmente quando altri lo hanno preceduto, pionieri della sventura e insieme della speranza. Ecco, questi pionieri sono andati anni prima nelle lontane Americhe, attratti dalle notizie certe, degne di fede, che altri, prima di loro, hanno trovato lavoro, denaro, se non ricchezza, come le rimesse degli emigrati stessi documentano. Hanno trovato lavoro,sicurezza, sentono che la vita torna a non essere a loro estranea, e con la vita gli affetti familiari.

Si richiamano i familiari. Le famiglie si riuniscono a gruppi. Per la partenza del piroscafo sono già pronte. Hanno raccolto le poche cose necessarie, indispensabili, un po' di biancheria (poveri sì, ma puliti), lo stretto indispensabile per mangiare durante il viaggio da Pollina a Palermo, luogo di imbarco. Non si possono permettere il lusso di andare a mangiare in una trattoria, o di farsi derubare da gente ingorda. Si sa, tutti se ne approfittano della povera gente.

Parte il gruppo degli emigranti. Siamo di pomeriggio, sono usciti dalle proprie casette, dando un addio alla loro fanciullezza, ai loro sogni in parte realizzati tra le mura domestiche, in parte, e sono stati i più, rimasti irrealizzati. Il pianto stringe loro la gola perché non possono dare sfogo a tutta l'amarezza che dentro li strugge. Vanno per ricostruire la famiglia, ma è pur famiglia quella che lasciano, anche se si tratta soltanto i povere mura, di poche suppellettili. Ma fanno parte della loro vita, elementi essenziali, partecipi delle loro gioie, dei loro dolori, delle tante e tante speranze che li hanno sorretti a vivere.

Partono gli emigranti dalle loro case. Hanno un punto di riunione, che può essere S. Francesco, perché in quel posto si riuniscono due strade, quella che parte dalla Maddalena, piana, un tratto di strada antico, utile questa strada a tutti quelli che abitano dalle chiese di S. Giuliano e di S. Pietro in giù; e quella che da porta Sant'Antonio consente l'uscita a quelli che abitano nella parte alta del paese, i quali preferiscono questa strada, tra l'altro perché non se la sentono di uscire a processione, fare tutte le strade del paese, come se andassero a festa. Si riuniscono a S. Francesco, si volgono indietro a dare un'ultima occhiata alla collina che li sovrasta, al loro indimenticabile “pizzo”, e poi taciti si rimettono in cammino perché la strada è lunga per arrivare alla stazione e prendere il treno per Palermo. Si sa, il treno non aspetta..

Partono gli emigranti. Il loro sguardo si incontra con lo sguardo, quasi casualmente, di un ragazzo che passa, che ritorna dalla campagna in paese, ecco, uno sguardo di donna che abitava vicino lo fissa come per conservare dentro l'anima propria l'immagine di un essere vivente. Sguardo insistente, forse velato di pianto. Lo aveva visto nascere? Certamente lo aveva visto crescere; è ancora piccolo, ragazzo ancora, pur abituato alla vita dura dei campi. Chi sa, che cosa conteneva quello sguardo? Quel ragazzo non l'ha dimenticato, forse anche il suo sguardo, certamente non curioso, certamente pensoso, non sarà stato dimenticato da quella donna, lo avrà portato con sé, ricordo del paese. Fa sempre bene il ricordo di un essere vivente che faccia quasi da legame tra la vita che ci attende e quella che si lascia!

Partono gli emigranti, e il loro numero è cresciuto. Siamo appena appena dopo la fine della prima guerra mondiale. Qualcuno era già partito prima dello scoppio della guerra, altri erano partiti appena si erano riaperte le partenze dopo la guerra. Povertà avevano lasciato; alla vita stentata piena di pericoli durante quegli anni di guerra, si era aggiunta quella vita vissuta appena ritornati. Nulla di nuovo; lavoro duro, ingrato, nel proprio campicello, un lavoro rifiutato da chi poteva darlo, o pagato come se a richiederlo si fosse presentato un morto di fame. Meglio emigrare..

Una molteplicità di cause ha sempre alimentato l'emigrazione a Pollina. Fondamentale è sempre stata quella economica. Non direi il desiderio di avventura, di ricchezza. Desiderio di avventura, non direi, per lo meno non mi consta. Lo spirito di avventura non mi sembra possa attecchire tra gente abituata al lavoro, a stentare la vita per sé, per i propri cari, tra gente che rimane legata al proprio paese, per quanti anni possano passare senza che lo riveda. La vita affettiva è ricca in chi nasce a Pollina, come è ricca anche la sua vita di intelligenza. Per lo meno così abitualmente si pensa, si crede. Resta quindi il problema del pane, col quale non si può scherzare. Direi che esso è stato sempre il problema fondamentale. Quello di raggiungere una certa agiatezza, se si vuole il desiderio della ricchezza, sarà venuto dopo, ma all'inizio no, di certo.

E l'emigrante è partito, ha fatto ogni specie di lavoro, ha vissuto quasi solo in lontane città, qualche volta ha costituito dei nuclei consistenti, un frammento del paese natio ricostruito in terre lontane.

Alla antica emigrazione se ne è sostituita un'altra, in questi ultimi anni, una emigrazione di altro genere, legata alla nuova realtà della vita paesana, italiana, europea. Si va in alta Italia, in Svizzera, specialmente in Germania, credo un po' dovunque. Si cerca denaro, si comincia a pensare al benessere. Le rimesse dei nuovi emigranti hanno altra destinazione rispetto a quella originaria. Allora si iniziava proprio con le prime necessità della vita; ora si pensa ad elevare il tenore di vita. Ecco, si pensa che avere una casa pulita, più ampia, bene arredata è una necessità. Si badi, la casa pulita l'hanno sempre avuta le donne di Pollina, anche se sono state costrette a lavarla con poca acqua (l'acqua per secoli è stato un bene di prima necessità, razionata da madre natura), a forza di braccia, perché fa parte del loro decoro, della dignità della donna di casa, fanciulla o sposata che sia. Né casa sporca, né vestiti sporchi, tranne quelli del lavoro, per necessità.

Il paese così ha cambiato fisionomia, come fisionomia hanno cambiato le strade, come ho già accennato. Aggiungo ancora che altra fisionomia ha assunto l'ambiente sociale, la struttura della vita associata. Paese essenzialmente agricolo era Pollina. I più erano contadini, pochi i pastori, pochi gli artigiani, buona parte piccoli proprietari. Pochi erano i proprietari più ricchi, se così si può dire, ricchi rispetto ai numerosi poveri, o semplicemente un po' agiati. Tali proprietari appartenevano alla classe dei così detti “civili”, una classe che a poco a poco è andata scomparendo, per corrosione interna prima che l'evolversi della vita associata le desse il colpo di grazia. Ha perduto la sua posizione di prestigio, di comando, di potenza economica, per cause interne: matrimoni “in famiglia”, ossia tra di loro, il che ha portato a inquinamento, direi, delle famiglie, malattie, con le conseguenti distruzioni dei nuclei familiari; gioco, quindi rovina economica; incuranza di badare con i propri occhi alle cose proprie, e, si sa, solo l'occhio del padrone ingrassa il cavallo. La potenza economica di tali famiglie è scomparsa; se qualche cimelio è rimasto, vive nella sua solitudine.

C'è di più. Pollina è ferace di iniziative nei suoi abitanti. Abbiamo visto l'emigrazione. Ne abbiamo un'altra di natura diversa, ma che in questo momento teniamo presente perché in maniera determinante ha contribuito a far cambiare il volto della vita associata. Mi riferisco alla vita studentesca. Pollina ha avuto la capacità di creare studenti a non finire, da parte di chi poteva, da parte di chi stentava anche a vivere. Professionisti ne son venuti a non finire. Pochi quelli che potevano restare a Pollina; i più hanno alla loro volta emigrato. Mettiamo sul bilancio questa forza, poco importa scendere ai particolari. La classe che ottiene il primo posto è costituita da loro, o personalmente o per l'elevamento dei nuclei familiari dai quali provengono. Si tratta di una media borghesia, se così possiamo chiamarla, abiti a Pollina o nei paesi vicini, come Castelbuono, Cefalù, che ha dato un nuovo orientamento alla vita paesana. Gli stessi “eredi” dei “civili”, se funzione hanno avuto, hanno, certamente la debbono non al peso della tradizione familiare, ma alla posizione nuova che l'istruzione loro ha dato.

Aggiungiamo ancora il peso, forse crescente, che l'evolversi stesso della vita associata porta con sé in ogni luogo. Mi riferisco al turismo. Si può dire, che, malgrado la presenza della Valtur, il turismo sia ancora vergine a Pollina, anche se la struttura della collina non penso possa consentire notevoli sviluppi locali. Ma posti sfruttabili ce n'è a non finire. Una cosa mi sembra tuttavia sia necessaria indicare perché lo stesso turismo abbia un autentico incremento, per evitare che la gita a Pollina si riduca alla vendita di qualche cartolina, ad uno sguardo al panorama, in attesa che si ridiscenda a Finale, alla località turistica dinanzi indicata, costruita in un posto assai bello, ma che era un “peso morto” per il Comune, secondo la mentalità della gestione antica, quando la ricchezza di un terreno si misurava dalle salme di frumento che l'agricoltura poteva ricavarne, dalla quantità di olio che un uliveto poteva produrre, dalla quantità di manna che il contadino era in grado di strappare all'albero generoso nei mesi estivi.

Credo che elementi necessari per il futuro turismo possano essere costituiti non solo dalla apertura di un albergo in un qualsiasi posto aperto al mare, al sole, al cielo, sempre bello, nuvoloso o sereno che sia, in base al panorama dovunque suggestivo; non solo da frequenti rappresentazioni in quel piccolo gioiello che è costituito dal teatrino costruito ai piedi del castello, tra antichi ruderi, aperto al cielo infinito nella sua ristretta conca; ma anche da uno sviluppo o dalla creazione di un artigianato locale; a cominciare dal ricamo un tempo prediletto dalle fanciulle, da marito o no; dal ritorno alla campagna. Un ritorno certamente duro, alla gente che ormai si è disabituata, ma un ritorno che potrebbe anche essere modificato. Se il grano non è redditizio, dove la mettiamo con la tanta e tanta frutta meravigliosa che un tempo madre natura produceva, quasi senza cura particolare da parte dell'uomo? Credete che quella frutta: ciliege, nespole, fichi, pere, uva, castagne, possano lasciare indifferenti i turisti? Se aggiungete anche i fichidindia, si può constatare che in ogni stagione dell'anno Pollina può costituire una attrattiva per il turista!!


 

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